sabato 29 gennaio 2011

L'estraneo .

Si sentiva in prigione. Forse perchè lo era veramente. Aprì gli occhi, guardò le sbarre davanti a sé. Non c'erano dubbi sul luogo in cui si trovava. Ogni tanto si poneva delle domande, le veniva la curiosità di capire perchè si trovasse lì, e chi ce l'aveva mandata, e fantasticava sulle possibili risposte. Poi lo chiedeva anche alle secondine, ma non riceveva mai una risposta soddisfacente. D'altronde, era sempre stata molto puntigliosa, su certe cose, e non si accontentava di risposte così, buttate a caso. Ricordò che da bambina non era stata molto diversa.

Una volta era in macchina coi suoi genitori, e si viaggiava rasente la ferrovia. Guardando il treno che correva di fianco a loro aveva chiesto se era vero come si vedeva nel suo cartone preferito, che c'è un treno che vola. I suoi genitori molto frettolosamente le avevano risposto che sì, era vero, esisteva. Lei aveva avuto un moto di rabbia interiore. Aveva 4 anni, ma non le piaceva che le si raccontassero bugie. Così aveva ribattuto che se non avevano il tempo di rispondere potevano evitare di dire cose a caso. Li aveva gelati così. Era sempre stata in questo modo, sin dai 4 anni. Forse sin da prima.

Non sapeva che ore erano. Il tempo in cella tende a dilatarsi, a diventare un'unica massa dolente, un buco nero di rabbia e sofferenza che ingoia tutto quanto. Faceva casino col sonno e la veglia, per esempio. C'erano delle volte che era sveglia e le pareva di sognare, e immaginava cose fantastiche, di ammazzare qualcuno, di suicidarsi in modi sempre diversi, di guidare un autotreno, di immergersi nel mare più profondo, e poi si accorgeva che stava parlando, che era sveglia, e che quelle cose non le stava sognando, le stava pensando consapevolmente. Se ne accorgeva perchè la secondina di turno le lanciava un urlo che la scuoteva. Allora taceva immediatamente, e tirava su col naso. Altre volte invece sognava, e pensava di essere sveglia. Erano spesso incubi, e lei non poteva farci nulla perchè era in balia di ciò che accadeva nella sua mente.

C'era un sogno, ad esempio, che la tormentava spesso. C'era un bambino, in casa sua. Un bambino che piangeva. Lei gli diceva di smetterla, ma il bambino continuava piangere. Era tutto molto veloce. Pochi flash, poi il sogno finiva. Lei sapeva che non era proprio un sogno, che era vero, quel bambino era vero. C'era anche un uomo nel sogno. Ne sentiva la voce. Era Lui, senza dubbio. Quella era la loro casa. Lei sapeva che ora a casa loro c'era questo bambino, un bambino biondo, di circa 3 anni. Cosa ci faceva nella loro casa? Di chi era? Chi l'aveva portato lì? Non trovava risposte a queste domande, perciò assillava sé stessa e gli altri. Si ritrovava a chiedere ripetutamente alle secondine: chi è quel bambino? Di chi è? Cosa ci fa a casa mia? Le risposte erano sempre gettate al vento. Non era capace di ascoltarle. Le lasciava cadere così, come foglie morte dall'albero.

Avrebbe tanto voluto essere un fiume, o magari un torrente di montagna, e passare accanto a un albero, un bel castagno nodoso, come quello che aveva suo nonno in campagna. Serpeggiare dentro ad un bosco, fare fruscio fra le rocce, adombrarsi all'albero, e poi via, cadere giù, senza sapere dove andare. Almeno la prima volta. Invece era lì, chiusa fra quattro mura, a sognare bambini biondi, senza sapere nemmeno che ore fossero. Improvvisamente la secondina annunciò una visita. Lui stava venendo a trovarla. Lui veniva spesso a trovarla, ma lei non aveva molta voglia di vederlo. Per questa cosa del bambino. Era molto arrabbiata per questa storia, non voleva che a casa sua ci fosse un bambino estraneo. Doveva cacciarlo di casa. Ma Lui non voleva farlo, e ogni volta litigavano, e Lui le diceva cose che lei non capiva. Quando si parlava del bambino, le parole di Lui diventavano incomprensibili, come passate al registratore, rallentate, modificate. Lei non lo capiva. Sospettava che lo facesse apposta, di parlare male, storto, per fare in modo che lei non capisse cosa stava dicendo. Forse voleva incastrarla, per cose che lei non sapeva neanche. Comunque quel bambino doveva andarsene da casa loro. Era un estraneo, un intruso. Non aveva alcun diritto di stare con loro, nella loro casa. Era parecchio che non la vedeva, la sua casa, anche se naturalmente questo problema del tempo rendeva difficile capire da quanto. E per quanto non l'avrebbe rivista.

Poi Lui arrivò. Sentì i suoi passi, inconfondibili, un po' pesanti, sul pavimento del carcere. Non la facevano neanche uscire dalla gabbia, la tenevano sempre dentro, per evitare che si facesse del male. O che facesse del male a qualcuno. Lei non capiva bene neanche questo. Di solito, quando Lui veniva a trovarla, lei non lo degnava neanche di uno sguardo, perchè comunque era anche colpa sua se ora si trovava lì dentro. Era un po' offesa per questo. E poi per la questione del bambino, certamente. Dunque anche questa volta si mise con le spalle alle sbarre, e il volto rivolto verso il muro, per non rischiare di guardarlo neanche un secondo. Come faceva di solito. Però questa volta andò diversamente. Ripensò per un attimo a quella storia del fiume e dell'albero, e le venne in mente per un secondo che forse le sarebbe piaciuto, da fiume, trovare lui sotto forma di albero, lungo le sue rive. Fu un cedimento, un attimo. Volse la testa, e se lo ritrovò lì, davanti a sé, oltre le sbarre. Era un sacco di tempo che non lo vedeva dietro le sbarre. Era lei ad essere in prigione, ma ogni tanto per non impazzire diceva a sé stessa che erano gli altri ad essere oltre, ad essere in gabbia. Così lo vide, e rimase a guardarlo per un po'.

Lui disse solo una parola
Anna.
Era il suo nome, certamente.
Anna, ripetè.
Era sempre stato un tipo piuttosto calmo, e anche in quel momento la sua voce risuonava tranquilla all'interno di quella cattedrale.Questo le faceva quasi piacere, quasi fosse una coperta calda che non si tirava su, a coprirsi, da parecchio tempo. Lui rimase immobile sulla soglia, e lei per un attimo si trovò spaesata. Cosa doveva fare, si chiese. Ormai la regola era saltata, lei lo aveva guardato, senza dubbio Lui lo sapeva, e quindi? Sentì fortissimo il desiderio di toccarlo, qualcosa che non faceva da tanto tempo, da quando le sue parole erano diventate incomprensibile per lei. Quanta fatica le sarebbe costata, e cosa avrebbe significato per Lui? Non lo sapeva. Si trascinò fino alle sbarre, dove la stoffa dei suoi jeans sfioravano il freddo metallo a cui lei si stava aggrappando.
Quel bambino deve andarsene.
Attaccata alle sbarre guardò in alto, lo guardò negli occhi. Erano color dell'ambra, li ricordava bene, ed erano rimasti così, nonostante il passar del tempo. Improvvisamente, nei suoi occhi vide qualcosa. Un'immagine, che si specchiava nel suo sguardo e finiva dritta nel suo cervello. C'era un altro bambino, in questa immagine, ma stavolta più piccolo, in fasce. Lei lo teneva in braccio, e lo guardava con amore. Un amore che stentò a credere di avere. L'immagine che vedeva lo mostrava chiaramente, ma lei stentava a riconoscerlo su sé stessa. Quando è successo questo, si chiese. Lo chiese a voce alta, a Lui. Chi è questo bambino, cosa è per me? Esiste veramente? Lui le rispose nel solito modo che lei non capì. Le venne un moto di rabbia, come quella volta da bambina, per la faccenda del treno che volava.
Rispondimi ti prego.
Lo afferrò per i pantaloni.
Lui si abbassò su di lei e disse
E' tuo figlio.
E poi ancora
E' nostro figlio.
Quando è successo?
Tre anni fa.
Io non ricordo niente.
Sì. Lo so.
Allora i ricordi si mescolarono con le lacrime. Perchè come aveva potuto dimenticare? Certo, quel bambino biondo in giro per casa, quel bambino estraneo, era il suo, era il loro. Si afferrò ancora di più ai suoi pantaloni, e in un attimo le venne in mente come lo aveva partorito, e quando, e cosa aveva provato, e quanto aveva spinto per farlo venire al Mondo. Tutto il sangue e le lacrime, e la voce di Lui accanto.
Dunque è davvero mio e tuo?
Sì. Mio e tuo. Di entrambi. Insieme.
Non era più un estraneo. Quel bambino era suo, e di Lui, contemporaneamente. Ora poteva anche pagare in pace per ciò che aveva fatto. Ora che sapeva, poteva pagare. Ora lei si sarebbe trasformata in fiume, e Lui in albero, e avrebbero portato con loro quella piccola foglia, quel fiore o frutto che era nato dai loro lombi, tre anni prima.
Si asciugò le lacrime.
Voglio dormire. Ma poi portami via di qui.
Sapeva che lui non poteva portarla via, che sarebbe rimasta lì per molto tempo ancora, a sentire passare il tempo eppure immobile, immutabile, come i ricordi della sua infanzia, senza un figlio.

*neve*

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